Arroganza contro possibilismo. Rigore contro morbidezza. Sfrontatezza contro umiltà.
Il leader sbruffone e quello modesto si affrontano a viso aperto in una ricerca condotta dalla Società Zenger/Folkman i cui risultati sono stati pubblicati anche su The Harvard Business Review. Lo studio svolto è stato accurato e molto approfondito, grazie ad un campione di analisi sensibilmente rilevante composto da quasi 70.000 manager di centinaia di aziende, valutati da ben 750.000 dipendenti.
L’oggetto dell’analisi? Capire se la percezione che un leader ha di sé stesso combacia con quella che i suoi sottoposti gli riconoscono.
Come era immaginabile, quasi mai l’opinione che abbiamo di noi è la stessa che gli altri ricevono ed elaborano.
Una differenza tra valore reale e percepito, dunque, c’è. Ed è normale che ci sia.
Quello che suona meno normale è quanto questa discrepanza stravolga nella realtà la nostra visione delle cose, ribaltando anche l’immagine che un leader ha di sé.
Capiamoci meglio.
I leader posti sotto esame sono stati classificati in due macro cluster: quelli dal petto gonfio, sicuri di sé stessi e delle proprio capacità, e quelli più modesti, decisamente meno convinti delle proprie competenze e non sempre sicuri di aver lavorato al meglio.
Niente di strano? No, per il momento.
Se non fosse che, girando il foglio e osservando l’opinione dei dipendenti, i primi sono stati giudicati come inefficienti e poco capaci, mentre i secondi hanno registrato un livello di gradimento, stima e considerazione molto alto da parte della propria squadra.
Cosa possiamo dedurre da questi risultati?
La principale considerazione che salta agli occhi è che i leader che tendevano a sottovalutarsi sono stati quelli maggiormente lodati dalle proprie risorse e considerati più efficienti e capaci.
Il motivo alla base di questo risultato?
Secondo Zenger e Folkman i leader che giudicando sé stessi si sottovalutano, e che vengono invece apprezzati dai dipendenti, condividono 3 importanti valori: l’umiltà, il desiderio di raggiungere standard personali altissimi e la ricerca di migliorare continuamente, senza mai sentirsi arrivati.
Queste caratteristiche da un lato impediscono al leader in questione di pavoneggiarsi e ritenersi appagato, non facendolo sentire troppo sicuro, e dall’altro lo spingono all’eccellenza personale e professionale.
Ma gli effetti dell’umiltà di questa categoria di leader non si riflettono solo su sé stessi, ma contagiano, positivamente, tutto il team di lavoro.
Stando ad un’altra ricerca condotta da una società cinese i dipendenti preferirebbero i leader umili, poiché questi ultimi sarebbero in grado di valorizzare al meglio il team, dando respiro e attenzione alla professionalità individuale di ciascuna risorsa. Questi capi saprebbero esercitare il potere senza adottare il tipico approccio del boss-comandante, ma al contrario lasciandosi muovere da uno stimolo altruistico. I riporti di un leader così modesto e aperto si sentono più considerati, davvero partecipi del progetto a cui stanno lavorando e motivati a fare del loro meglio.
Secondo un report della società Catalyst, inoltre, un team apprezza particolarmente un leader umile e dal profilo basso, poiché gli riconosce la capacità di ammettere i propri errori e di imparare costantemente da essi, nonché di credere fermamente nell’importanza dell’opinione degli altri e nel valore del contributo di terzi per colmare le proprie lacune.
Insomma, anche secondo questa analisi, un leader umile è sinonimo di leadership democratica, aperta e attenta, capace di spingere il proprio team a dare sempre il massimo, al fine di raggiungere tutti insieme il traguardo.
La lezione è chiara: allentate il nodo alla cravatta e scendete dal piedistallo. Mettersi in discussione e non sentirsi mai soddisfatti dei propri risultati è la strada più efficace per conquistare non solo le poltrone del potere, ma soprattutto il rispetto delle proprie risorse.