Leadership e management italiani in tema di CSR: “White elephant”?

Questa settimana vi proponiamo un interessante guest post di approfondimento, redatto da Dhebora Mirabelli e Alessio Muccini, alumni del MIP EMBA – Roma nel 2012, riguardante delocalizzazione, responsabilità sociale d’impresa e leadership. Buona lettura!

Chi sono e cosa rappresentano i “white elephants”?

Se fossimo noi, imprese italiche? Attratte in terre straniere come simbolo di sviluppo e prosperità di Governi locali che si nutrono solo di investimenti profittevoli.

Se fossero i nostri investimenti stranieri? Che operano in mercati emergenti più importanti, che non sfruttano tutti i benefici che danno o potrebbero dare.

In Oriente, i sovrani usano andare a caccia del raro “white elephant”.

La cattura e il loro trasferimento in “habitat in-naturali” è dimostrazione di potere che genera rispetto e ammirazione da parte dei sudditi. Il popolo considera questi animali simboli di prosperità e fortuna: motivo di orgoglio e prestigio per i regnati oltre che i regnanti.

In realtà, aldilà di ogni credenza popolare, gli elefanti bianchi non sono una specie a sé stante: si ritiene che il motivo principale della loro caratteristica colorazione sia recessivo, dovuto all’incrocio tra genitori imparentati.

Soffermandoci sulle caratteristiche, la percezione popolare, la reputazione e la sorte del “white elephant” possiamo evidenziare delle similitudini con gli stili di leadership e i modelli di management italiani in ottica di CSR espatriati in Asia.

In questi mercati emergenti i manager, attratti dalla possibilità di beneficiare dell’effetto leva degli importanti tassi di crescita del PIL che si registrano, “imparentati” con le nostre imprese Made in Italy, perdono un po’ del loro “pigmento” originale nell’esercizio della loro leadership e attività di guida e indirizzo dell’impresa “nostrana” de-localizzata.

La leggenda sui “white elephants” ci aiuta a capire come, grazie ad artificiose similitudini, possa la percezione comune legata alla prosperità e allo sviluppo essere spesso caratterizzata da falsi miti ormai appartenenti a pensieri e logiche anti-progressiste e non futuristiche: in una parola attualmente “insostenibili”.

Catturati dall’idea di espansione, profitto e prosperità economica, i manager ricreano “habitat industriali” lontani dalla “generatività” di quelle rare eccellenze che il nostro Paese ancora può vantare e che sembrano essere un tutt’uno con il territorio.

In Asia abbiamo, troppo spesso, visto nostre aziende che hanno cavalcato geolocalizzazioni solo per soddisfare business case che vedevano il basso costo del lavoro o la bassa tassazione come unico beneficio.

C’è di fondo, molto spesso, un’incongruenza tra quello che si dice e quello che si vede. La sola dialettica è prova di distacco: mai quanto in Asia, abbiamo sentito che il mondo era diviso tra “noi” e “loro”. Ma com’è possibile definire un modello di management che non vede il manager partner di “loro”?

Nonostante ciò, la credenza di essere portatore di prosperità nel contesto locale “conquistato” e la buona reputazione di generatore di sviluppo e profitto del manager nostrano sembra non essere intaccata.

Tali esempi restano simbolo di buon auspicio e di potere per tutti coloro che guardano all’internazionalizzazione ancora come a processi “insostenibili” se non ammortizzati unicamente da benefici economici di breve periodo; dimenticandosi, così, del futuro ormai prossimo.

Tutto è bene quel che finisce bene” potrebbe dire chi è avvezzo a letture ciniche, o il manager dallo stile di leadership che rinuncia alla democratizzazione dell’economia.

Ma tutto finisce bene in questi casi? Sempre?

Da un’indagine recente (Nielsen, 2014), più della metà dei consumatori si dicono disposti a riconoscere un premium price per prodotti e servizi di aziende impegnate nel socio – ambientale. Un terzo di loro provengono dalla Regione Asia-Pacifico.

E quindi questo mito, sempre meno raro, di manager pachiderma italiano sta veramente portando valore e futuro alla sua organizzazione? Non è forse più semplicemente a causa dell’estinzione dei valori delle imprese italiane, imparentate da logiche di profitto, che generano manager trasmettendogli lo stesso gene proveniente da motivazioni recessive anziché progressive?

Da specie cacciata a predatori di cambiamento e progresso socio-culturale il passo, in realtà, è breve: tanto quanto la sostituzione dell’adozione del significato denominativo a quello connotativo, dipendente cioè da nostri sentimenti e giudizi personali, del termine white elephant.

Nei paesi anglofoni, curiosamente, l’appellativo “white elephant” assume un significato specifico. Comunemente, esso viene dato a lussuosi beni o a imponenti progetti, i cui eccessivi costi di realizzazione e gestione non sono compensati dai benefici che danno o che potrebbero dare. Questo, portando alla loro progressiva decadenza e abbandono.

I pragmatici anglosassoni potrebbero illuminare i leader italiani globali più ostici verso il cambiamento, che dovrebbe portare a nostro modesto parere ad internazionalizzare valori, diritti e principi del Made in Italy insieme al know how e gli skill riconosciuti in tutto il mondo.

Tutto ciò consentirebbe di fare del normale vivere civile e sociale l’eccellenza in ogni Paese e dell’ambiente che le circonda il naturale habitat delle nostre imprese, senza bisogno di artificiose ri-creazioni della realtà “nostrane” in contesti multiculturali più integrabili ai nostri sistemi e modelli di quanto si pensi.

E’ forse questo il vero mix di significato del nostro White Elephant? Segui la discussione attraverso l’hashtag #spiritoleader!

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