Non sottovalutate il leader introverso!

Non sottovalutate il leader introverso

Bill Gates, Larry Page, Mark Zuckerberg, Steve Wozniak, Elon Musk: cosa accomuna questi grandi nomi del business?

Qualità indiscutibili, genio assoluto e grande talento sono sicuramente caratteristiche condivise da questi straordinari personaggi.

Ma oggi non parliamo di intelligenza e QI. Oggi parliamo di carattere e di predisposizione alla socialità e alla relazione con gli altri.

I protagonisti sopra citati, infatti, sono tutti catalogabili come introversi: persone poco predisposte al contatto e al dialogo con gli altri e allo stesso tempo molto creative, riflessive ed empatiche. Sono individui che amano svolgere lavori in autonomia, dove la collaborazione, la visibilità e la necessità di cooperazione sono ridotti al minimo.

Basandoci solo sulla descrizione del profilo psicologico di questi individui sarebbe intuitivo pensare che siano destinati a ruoli di back-office, nascosti e poco valorizzati, e che non saranno mai leader.

E invece gli studi dimostrano come sia introversi che estroversi abbiano le stesse capacità di emergere.

Certo, la società manageriale tende a riconoscere più facilmente la leadership a professionisti in grado di vendersi, di valorizzarsi e di creare un network virtuoso e fertile di contatti, sottovalutando, a proprio discapito, le reali capacità degli introversi. Non per nulla, secondo una recente ricerca condotta da Karl Moore, associate professor of strategy and organization at Desautels Faculty of Management – McGill University, circa il 70% dei CEO sono estroversi e solo il 25/30% introversi

Ma il tema di come armonizzare, sul posto di lavoro, le differenze caratteriali è un argomento caldo e tutto da approfondire.

Scopriamo insieme come ottenere il massimo da introversi ed estroversi e adottare modelli di leadership volti a valorizzare le diversità dei talenti.

1.       Modificare l’approccio alla radice.

Immaginate un introverso alle prese con un normale colloquio di lavoro in cui la primissima domanda, solitamente, è: “Mi parli di lei”. Facile intuire che, tra una persona poco incline al contatto ed una molto socievole, la seconda abbia più chance di ottenere il posto. Eppure, in aziende come Google, i leader introversi sono il 75% del totale. Il motivo? Un processo di selezione basato non solo sui classici colloqui, ma anche su test pratici e casi da risolvere: una cartina di tornasole per capire se il candidato è solo timido, oppure se non è adatto a ricoprire il ruolo in palio.

2.       Parola d’ordine: equilibrio.

Troppi galli nel pollaio, si sa, non sono mai una scelta intelligente. Costruire un board composto da individui loquaci e dominanti, potrebbe essere rischioso, e poco produttivo. Allo stesso modo lasciare che un team di personalità schive e riservate guidi un’azienda può essere poco vantaggioso. La soluzione? L’equilibrio. Ogni squadra manageriale, per essere efficace, secondo gli esperti dovrebbe essere ugualmente composta da una parte di professionisti introversi, ideali per il loro spirito analitico e riflessivo, ed una di estroversi, appassionati e decisi. Lo stesso principio, validissimo nelle sale del potere, andrà applicato anche quando si parla di costruire un team ai piani più bassi: diversità, varietà e versatilità sono le chiavi per amalgamare un gruppo equilibrato e di successo.

3.       Ad ognuno il suo spazio.

Siamo nell’epoca del team working, dei modelli flat di leadership, della collaborazione come mantra. Questa visione di business si traduce, a livello architettonico, nel dominio assoluto dell’open space. Nella maggior parte delle aziende più innovative, anche i CEO lavorano in uffici comuni, esposti allo sguardo di tutti. Un habitat ideale per gli estroversi, che amano il contatto, ma che può diventare davvero angusto per gli introversi che preferiscono spazi intimi e poco visibili. Per tirare fuori da ogni risorsa il massimo del potenziale è necessario essere attenti anche a dettagli come questi, organizzando gli spazi di lavoro in modo che soddisfino le necessità di tutti. Sì all’open space, dunque, ma sì anche ad aree riparate e di decompressione, perfette per riflettere e isolarsi.

(4) commenti

  1. Articolo molto interessante con ottimi spunti di riflessione sia a livello personale che organizzativo. Grazie.

    Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *