Slow Food si propone di favorire, intendendola come massima espressione, una qualità del cibo rispettosa di tre elementi imprescindibili: bontà organolettica, sostenibilità ecologica dei processi produttivi, distributivi e di consumo, rispetto della giustizia sociale e della dignità di tutte le persone coinvolte nella filiera alimentare.
E’ proprio sulla base di questi valori e principi che abbiamo voluto intervistare un leader solidale, da sempre impegnato a cercare di contribuire con responsabilità e professionalità a diffondere cultura e valori per un mondo migliore.
Daniele Buttignol, con più di 20 anni di esperienza in Slow Food, associazione no-profit presente in 150 paesi, ricopre oggi la carica di Segretario Generale. Durante la visita allo stand Slow Food in Expo 2015, con lui ci siamo soffermati sull’importanza di sposare un approccio socialmente responsabile nel management di aziende che operano in ambito agro-alimentare.
A lui il nostro personale ringraziamento per la disponibilità e la collaborazione, e a tutti voi il nostro augurio di una gustosa lettura della prima parte della nostra intervista.
A cura di Dhebora Mirabelli e Alessio Muccini.
Quali sono i principali problemi del settore agro-alimentare in termini di responsabilità sociale?
Le problematiche partono da lontano, vengono dall’idea che si ha del mondo della produzione, distribuzione e consumo del cibo: da lì nascono la stragrande maggioranza delle questioni legate alle filiere sporche e alla legalità.. Il nodo della questione è che si considera il cibo come merce. E’ evidente che se lo si considera in questo senso, al di là della qualità, si ricerca il più basso prezzo possibile. È il consumatore, che, in qualche modo contribuisce a determinare i comportamenti distorsivi del mercato, se non riconosce un giusto valore alla qualità o meglio se non definisce nel modo giusto la scala delle priorità.
Ognuno ha il suo livello di asticella che si avvicina un po’ di più alla qualità o si avvicina di più al prezzo basso, ma non necessariamente per le possibilità economiche. Nella scelta del buon cibo non è sempre vera l’equazione: elevata possibilità economica = scelta di cibo di ottima qualità. Quando si parla di cibo, molto spesso passano dei concetti sbagliati come ad esempio il fatto che un cibo buono, pulito e giusto, quindi un cibo di qualità a 360°, sia diritto esclusivamente di chi ha possibilità economiche. Questa è la grandissima bugia che viene raccontata o da chi approccia superficialmente il tema, oppure da chi in malafede cerca di contrastare una visione differente.
Occorre fare una valutazione sul costo del cibo, ma soprattutto sul valore del cibo. Ed aggiungo, un ulteriore approfondimento rispetto al costo reale, che non è quello espresso nell’etichetta, bensì quello che tiene conto di tutti i “costi nascosti” legati magari all’inquinamento dato ad esempio dal trasporto, o ancora a quelli legati alla salute.
Il cibo non è una merce e non può essere considerato tale, né da un punto di vista produttivo, né distributivo e a maggior ragione dal consumatore finale: il cibo una volta che lo mangio diventa parte di me ed è evidente che se io mangio un cibo di bassa qualità, esattamente come l’aria che respiro, questo è un male. Un concetto elementare se vogliamo, ma che troppo spesso passa in secondo piano.
Secondo questi concetti, fondamentali sembrerebbero essere delle linee guida di valutazione sul rischio alla salute e in genere di inquinamento da cibo spazzatura; un po’ come quelle utilizzate per misurare i danni correlati ai cambiamenti climatici, non pensi?
E’ così, è esattamente la stessa cosa. Il punto cruciale è che nel momento in cui si percepisce il cibo come merce, si guarda solo un aspetto della filiera, ne è prova il fatto che ancora oggi, nonostante tutto, molte persone vedono Slow Food solo come una realtà che promuove e tutela il made in Italy. Ma non è così o meglio solo in parte è così, nel senso che Slow Food Italia promuove e tutela il cibo di qualità di produzione locale, quindi è evidente che se parliamo di produzione locale parliamo d’Italia e “difendiamo” il made in Italy. Ma non tutto il made in Italy: a me non interessa che si vada in giro per il mondo con prodotti industriali di bassa qualità e neanche con prodotti artigianali di bassa qualità!
Per essere espliciti, a me interessa che si vada in giro per il mondo solo per promuovere l’eccellenza italiana, che prima di tutto deve essere conoscenza e fruizione del territorio, e solo dopo può diventare anche elemento di turismo, di marketing, ecc… Invece, se si privilegia il marketing come priorità commerciale è chiaro che tutto il resto sarà considerato a discapito della qualità stessa, perché viene dopo la salute, viene dopo lo star bene, dopo il vivere bene.
Senza dimenticare che cambiando i paradigmi e reimpostando l’approccio all’agricoltura e al tema, si potrebbero rilevare anche dei benefici rispetto al PIL, e dare effettivamente risposte concrete all’occupazione, considerata la ripresa registrata nel settore agricolo. Credo fermamente che l’agricoltura sia un settore che può dare delle risposte, specie in un periodo di crisi. È chiaro che per cambiare paradigma serve un’educazione al consumo che vada incontro, e che in qualche modo fornisca degli stimoli. Un’educazione, quindi, che faccia sì che si richieda un certo tipo di tracciabilità.
A tal proposito, cosa l’UE e i governi nazionali possono fare per promuovere la lotta contro la filiera sporca?
La prima cosa che c’è da fare è un’etichettatura effettivamente trasparente che dia a noi, adesso parlo da consumatore, la possibilità di non essere complice. Il consumatore che legge l’etichetta, deve poter comprendere se l’azienda sta lavorando bene oppure no. Attualmente non può sapere se quel sugo di pomodoro, è stato fatto in maniera giusta, oltre che buona e pulita, oppure no. Dico questo perché non c’è tracciabilità effettiva da questo punto di vista. L’azienda non ha l’obbligo, in alcuni casi neanche la possibilità, ma soprattutto l’obbligo, ribadisco, di mettere in etichetta tutto quello che vuole e tutto quello che dovrebbe essere richiesto per consentire di operare scelte consapevoli sul cibo. Oggi è possibile indicare in etichetta quello che viene richiesto, ma se vengono richiesti solamente gli aspetti nutrizionali da un punto di vista chimico o di calcolo delle calorie…è chiaro che stiamo affrontando la questione da un punto di vista sbagliato e stiamo guardando solo la punta di un iceberg. Io considero queste informazioni l’ultima cosa veramente necessaria da conoscere per un consumatore.
Ma bisogna anche considerare altre questioni che possano permettere di fare scelte veramente sane, giuste e pulite. Sai cosa mi fa sorridere? Quelle scene nei supermercati dove ci sono le persone che prendono due scatole di biscotti e le paragonano non leggendo gli ingredienti, ma guardando le calorie per vedere quella marca che ne ha di meno; ma sarà mica un modo di fare la spesa quello? La modalità di fare la spesa dovrebbe essere a contatto diretto con il produttore.
Quello dovrebbe essere il primo: io vado direttamente dal produttore. Non posso pensare di non avere questo rapporto diretto: io al produttore dico “senti un po’, come li fai ‘sti pomodori?” E se la risposta non mi convince approfondisco.
Esattamente come è avvenuto nel mondo del vino dopo lo scandalo del metanolo, io vengo da quelle terre, ecco parlando di filiera sporca. Negli anni ’80 il mondo del vino ha subito una crisi pesantissima con lo scandalo del metanolo: facevano il vino aggiungendo metanolo, sono morte diverse persone. Il mondo del vino ha toccato il più basso livello registrato, un danno d’immagine incalcolabile e senza precedenti. E cosa è successo dopo?
La gente ha iniziato a volerci vedere chiaro e i produttori spinti da questa volontà di chiarezza ci hanno messo la faccia: hanno iniziato ad imbottigliare, a migliorare l’etichetta, a farsi pagare magari qualcosa in più, ma facendo un prodotto di qualità. Bisognerebbe far così su tutto: metterci la faccia! Quando non posso spingermi fino al contatto diretto con il produttore serve un’ etichetta più chiara che mi permetta di vedere la sua “faccia” e, quindi, di conoscere a fondo tutte le informazioni che servono. Il consumatore dovrebbe così trasformarsi in coproduttore, ovvero un consumatore pienamente consapevole. In quanto tale, sono coproduttore perché influisco nella produzione: io vengo a chiederti la filiera pulita, io vengo a chiederti il rispetto per l’ambiente, io vengo a chiederti un cibo di qualità.
“Buono” paradossalmente oggi possiamo dire che è facile. È un lavoro che abbiamo iniziato 30 anni fa; oggi anche grazie a Slow Food, c’è un concetto di qualità e di conoscenza della qualità più diffuso; quindi il lavoro di educazione al gusto ha funzionato e sta funzionando.
Per concludere i governi nazionali e l’UE, così come le istituzioni in generale, possono intervenire da una parte mettendo in atto progetti di educazione, dall’altra parte mettendo in atto una trasparenza di un’etichetta più efficace che in qualche modo dia traccia di quello che succede, obblighi le aziende a dare visibilità a quello che realmente c’è dietro un sistema di produzione e distribuzione del cibo. Sarebbe auspicabile pensare anche a meccanismi, non voglio dire di punizione, ma che contrastino la reiterazione del comportamento illegale. Oggi come oggi, se un’azienda viene condannata per lavoro in nero o per reati di questa natura, la produzione continua! In alcuni casi anche se ha il marchio DOP o IGP: come dire…oltre il danno la beffa!
Da cittadino mi aspetterei che l’istituzione optasse per affermare il principio: “sei stato condannato per comportamenti illeciti e illegali in filiere produttive e distributive? Non ti sarà permesso di utilizzare il contrassegno della DOP o IGP, che vengono percepite come elementi di qualità”.
Cosa manca perché si faccia questo passo?
Deve esserci una volontà politica, anche in alcuni casi di fare lobby, perché è chiaro che quando si entra nel discorso, si finisce per contrastare gli interessi comuni dei grandi gruppi industriali. Sai che non ti permettono neanche di scrivere che l’olio italiano è prodotto solo da olive italiane? Questo mi sembra folle! Ci sono lobby che difendono la scarsa trasparenza e chiarezza delle etichette. Mi vien da dire: ci sarà un motivo. Perché paradossalmente uno non dovrebbe consentire di far passare la regola che se un’azienda volesse, potrebbe scrivere tutto? Perché vietare la massima trasparenza anche sulla base di una scelta volontaria del produttore? Queste, sono le cose su cui occorre intervenire e battere i pugni. Noi cerchiamo di farlo per quello che è nella nostra possibilità.
In parte è un argomento toccato prima ma che vorremmo approfondire, secondo te come la CSR può giocare un ruolo efficace rispetto alle problematiche evidenziate?
Intanto occorre che non vi siano elementi nascosti/interni dell’azienda, quasi per dire ce l’ho perché devo averla. Penso che, in qualche modo, non possa esserci un’azienda che non abbia la CSR. Alcune hanno proprio una branca aziendale che si occupa specificatamente della tematica, altre hanno solo un ambito di comunicazione che racconta cosa fa l’azienda etc. Secondo me, in un contesto quasi da sogno, quasi utopico mi verrebbe da dire che nessuna azienda dovrebbe avere un settore dedicato alla CSR, perché dovrebbe essere talmente connaturale alla mission aziendale da considerare parte integrante sia la persona che lavora nell’azienda, sia quella che acquisterà i prodotti dell’azienda.
L’esperienza Slow Food mi porta a dire che invece, per l’agricoltura familiare il discorso è più semplice e monitorabile. Nella produzione alimentare di piccola scala non si punta a fare profitto fine a se stesso, ma, nella stragrande maggioranza dei casi, si punta a lavorar bene. Anche perché il primo consumatore è proprio chi produce. Allora io mi fido molto di più ad andare da un contadino, da un agricoltore che poi è quello che per primo mangia quei prodotti.
Tutto ciò, porta un altro ragionamento importante, ovvero l’importanza di riflettere sulla necessità di implementare e potenziare un ritorno ad un’agricoltura familiare. Per fortuna soprattutto le giovani generazioni sembrano cogliere questa nuova tendenza con entusiasmo. Oggi il contadino non è quello con il bastone e il cappello di paglia. Quando parliamo di ritorno alla terra, non è il ritorno alla terra degli anni ’50 quando in campagna si faceva fatica e grandissimi sacrifici. Non è che si vuole ritornare a quello, però trovare un equilibrio sì. Partendo dal restituire dignità al lavoratore che produce con cura e attenzione il cibo e non considerarlo l’ultima ruota del carro, riconoscendo il giusto valore alla sua attività e ai suoi prodotti, se di qualità.