Intervista con Daniele Buttignol, Segretario Generale Slow Food: Nutrire il pianeta con cibo più “buono” è possibile! (seconda parte)

Alessio-Muccini-e-Daniele-Buttignol

A seguire la seconda parte della lunga e interessante intervista a cura di Dhebora Mirabelli e Alessio Muccini al leader solidale Daniele Buttignol, segretario generale di Slow Food, da sempre impegnato a cercare di contribuire con responsabilità e professionalità a diffondere cultura e valori per un mondo migliore.

Se vi foste persi la prima parte, potete leggerla qui.

 

Ci parli dei concetti di interculturalità e integrazione fra i popoli e civiltà reinterpretati da Slow Food?

Qui l’impegno è essere Slow Food, cioè, uno degli ambiti su cui siamo nati. Ogni tanto veniamo individuati come quelli che difendono le tradizioni, difendono le identità. E lo dico in termini negativi perché ogni tanto si confonde l’identità con il contrasto all’integrazione, no? Io sono io e mi difendo, difendo il mio territorio. Invece l’identità è tutto il contrario. Io esisto in quanto mi confronto. Io ho una mia identità e la confronto con le altre, non in quanto combatto le altre. Ed io spesso cito una serie di elementi che fanno proprio parte della storia del cibo italiano.

Penso ad esempio al mio Piemonte: uno dei piatti caratteristici, fra i più tipici sono le acciughe col bagnetto verde. E’ abbastanza risaputo che l’elemento principale di questo piatto non c’è in Piemonte. Questa tradizione nasce proprio dallo scambio. Oggi parliamo di interculturalità, di internazionalità ma il concetto è lo stesso.

Tutto è fatto di miscuglio, tutto è fatto in qualche modo di accrescimento continuo e l’accrescimento è accrescimento quando c’è più scambio. Nel cibo è la stessa cosa, nella cucina è la stessa cosa.. Per questo tutti i progetti di Slow Food hanno come base fondamentale lo scambio che può essere interculturale: a tal proposito voglio citare il progetto dei 10.000 orti in Africa, di Terra Madre. Terra Madre nasce dall’idea di mettere a confronto chi su territori enormemente diversi fa le stesse cose, perché fa agricoltura, allevamento, pesca etc., e può mettere a confronto le esperienze proprio perché si cresca insieme.

Anche il progetto degli Orti in Condotta si basa sul concetto di scambio. Questa volta si parla di scambio intergenerazionale laddove i nonni ortolani insegnano e raccontano e spiegano ai bambini l’agricoltura e insieme a loro fanno l’orto.

Tra tutti i progetti di Slow Food, non me ne viene in mente uno che non abbia lo scambio, che non abbia queste relazioni alla base.

Slow-Food-Expo-Milano-2015

Come l’Expo potrà diventare una leva culturale a favore della sostenibilità e della qualità del cibo internazionale con capofila l’Italia post 2015?

Qua vi dico una cosa che va presa con le pinze perché ci son già troppe polemiche dietro le nostre posizioni su Expo. Io non penso che Expo possa diventare paradigma di qualità ed eccellenza, perché Expo è un evento all’interno del quale ci sono tante posizioni, mi viene da dire troppe, per trovare un equilibrio comune. Questo non è necessariamente una cosa negativa proprio per il discorso di scambio di cui parlavo prima; è difficile però che da posizioni così diverse possa uscire una linea comune. Secondo me Expo può essere una grandissima opportunità per confrontarsi su questi temi e per far sì che quella superficialità di cui parlavamo prima possa in qualche modo cambiare e possa far capire alle persone come il cibo, l’agricoltura, la pesca, l’allevamento, facciano parte del nostro quotidiano. Come noi con le nostre scelte più consapevoli possiamo influire sul nostro pianeta.

Faccio riferimento a tutta questa polemica fra Slow Food e McDonald’s, perché siamo vicini di casa e abbiamo due posizioni completamente differenti. Ma mica solo con McDonald’s! Quando si parla di cibo come merce non mi riferivo necessariamente a McDonald’s, mi riferivo a tutto un mondo. Però è evidente che, se si propone un hamburger a 1,20€ dove dentro hai il pane, l’hamburger, l’insalata, le salse: faccio fatica a pensare che questo prodotto sia stato fatto con attenzione alle persone, alla qualità, all’intera filiera, ecc.. E’ plausibile che questo prodotto abbia tenuto conto di tutte le sfaccettature di cui parlavamo prima? Ha tenuto conto della bontà organolettica? Ha tenuto conto del rispetto dell’ambiente? Ha tenuto conto della giustizia sociale, che non vuol dire solo non avere lavoratori in nero, vuol dire anche non andare in determinati posti a far la produzione?

Il progetto iniziale di Expo, quello con cui Milano ha vinto l’esposizione universale prevedeva un’impostazione completamente differente. Un’impostazione dove i padiglioni fossero molto simili fra di loro in maniera che la differenza non la facessero le luci, l’altezza, la lucentezza ma la facessero i contenuti. Il rischio è che uno entri e vada a vedere quello che magari dal punto di vista architettonico ispira di più. Che va benissimo, se può diventare un modo per attirare le persone; l’importante è che poi si trovi anche il modo di farle andar via un pochino più consapevoli sul tema vero. Il tema è nutrire il pianeta – energia per la vita.

Questo padiglione di Slow Food è stato studiato da Herzog, uno dei più grandi architetti del mondo. Volutamente è stato strutturato in maniera molto semplice: è basso, con l’orto in mezzo, modulabile, di modo che alla fine si possa riutilizzare, anzi si dovrà riutilizzare, magari proprio negli orti. Questo era lo spirito con cui noi avevamo aderito alla prima idea di Expo. Io resto convinto che se il cibo e la sua importanza diventano elemento di discussione, di confronto, di approfondimento, se le persone usciranno da una visita pensando di doversi informare un poco di più sulla propria alimentazione e sulle filiere del cibo, ecco, allora Expo secondo me lascerà un’eredità positiva.

In Italia vi sono alcune zone caratterizzate dallo sfruttamento del lavoro nero, soprattutto, degli immigrati costretti a vivere in tendopoli/barraccopoli allestite a ridosso delle coltivazioni o produzioni locali (es: Vittoria, Lecce, Corigliano Calabro, Franciacorta, ecc…). Come Slow Food promuove e favorisce la lotta e il contrasto di queste realtà e nello stesso tempo la conservazione delle eccellenze alimentari provenienti da queste zone?

Intanto, bisogna dire che in qualunque zona, queste comprese, c’è anche chi fa qualità, lavorando comunque bene e battendosi contro un certo tipo di divisione e di impatto territoriale. È una scelta di vita vera ed è una scelta di rischio perché in alcuni territori tirarsi fuori da certi giochi e portare avanti un discorso di qualità è ancora più difficile. E’ compito di Slow Food ma anche delle tante realtà che in questo ambito lavorano e vivono, promuovere e sostenere tali esempi e comportamenti etici in realtà difficili. Penso però sia anche responsabilità delle istituzioni o quanto meno dovrebbe esserlo maggiormente.

In quei territori, in particolare, si dovrebbe far emergere e difendere le realtà che si oppongono alle logiche illegali, farle diventare degli esempi, virtuosi, che dimostrino che c’è anche un altro modo di vivere, di fare. Tutto, in logica altamente sostenibile, altamente remunerativa e altamente impattante per le nostre eccellenze made in Italy.

Noi abbiamo alcuni Presìdi che in determinati territori così complicati, cercano di contrastare queste logiche pur mantenendo alta la qualità e la sostenibilità economica e sociale. Ma per dire, il lavoro che fa “Libera” (Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie è un coordinamento di oltre 1500 associazioni, gruppi, scuole, realtà di base, territorialmente impegnate, nato con l’intento di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere legalità e giustizia) è straordinario da questo punto di vista. Facciamo diverse iniziative insieme, cerchiamo di sostenerli: i loro prodotti oltre ad essere “puliti” e “giusti” sono anche “buoni”. Quindi, in questi distretti bisogna mettere in atto progetti come questi: progetti che diventino esempi.

Quanto, secondo te, la Carta di Milano sta andando verso la direzione giusta?

Penso che, proprio per il fatto che dentro Expo ci sta di tutto e anche molte contraddizioni, gioco forza la Carta di Milano non riuscirà ad entrare così nello specifico per portare a quei cambiamenti legislativi che invece sarebbero necessari. Non riuscirà ad essere così incisiva da regolamentare una nuova tipologia di etichettatura che renda il consumatore realmente consapevole e co-produttore. La Carta di Milano proporrà degli intenti, il ché va bene, ma il rischio è che gli intenti rimangano tali. Questa non vuole essere una critica, ma se la carta di Milano riuscirà ad avere il supporto trasversale di soggetti così differenti, sarà perché essa è in posizione molto, forse troppo generica.

Spesso si avverte che per avere un’alta qualità, ovvero cibi buoni, giusti e puliti sia doveroso il riconoscimento di un surplus sul prezzo. Non pensi sia pericolosa e ingiusta, estremizzando un po’, che la pretesa di un comportamento eticamente e socialmente più responsabile nel settore agro-alimentare si riassuma poi in un lusso per pochi?

Si, sono molto d’accordo sul fatto che esiste questo rischio e che sia una cosa sbagliatissima. Più che altro perché è una cosa falsa. Come ho già sottolineato, è falsa e superficiale la percezione che il cibo di qualità sia un “simbolo” esclusivamente per chi ha possibilità economiche di un certo tipo. Oggi, per esempio, spesso si parla della fame nel mondo e diverse sono le posizioni e soluzioni proposte. La fame del mondo non la risolvi con l’industria. Noi produciamo una quantità di cibo enormemente maggiore rispetto a quello di cui abbiamo bisogno. Nonostante questo, abbiamo persone obese e persone che muoiono di fame… è questo il paradosso pazzesco. Bisogna ragionare prima sulla distribuzione e poi sulla produzione. Uno dei problemi più importanti, oggi, è la mancanza di tempo dedicato al cibo. Normalmente uno trova molto più comodo andare una volta a settimana in un grande supermercato, in un grande discount a comprare tutto il cibo e tutte le cose che servono per la settimana perché magari non ha il tempo e la voglia di andare al mercato contadino quotidianamente oppure di andare il week end in un’azienda a comprare direttamente dal produttore. Dobbiamo trovare la modalità: occorre rimettere il cibo al centro dell’impegno non solo economico. Sapere che è molto meglio spendere un pochino di più per il cibo piuttosto che per quello che si indossa, piuttosto che per tutte le altre cose che dovrebbero soddisfare bisogni secondari. Il cibo dovrebbe essere la prima scelta.

Ogni tanto si confonde il progetto dei Presìdi come elemento esclusivo della qualità. La produzione di qualità è in realtà una cosa molto più ampia. Un pomodoro che non è a rischio di estinzione, quindi non è un prodotto da Presidio Slow Food, e viene prodotto da coltivazione biologica è un cibo di primissima qualità. Se poi si fa attenzione alla spesa, si compra quel che serve e non quel che viene proposto (come i tanti 3×2 che poi aumentano in modo esponenziale lo spreco), e anche il prezzo diventa elemento di novità.

Per comprare quello che serve occorre imparare a fare la spesa in maniera giusta. Uno dei progetti di Slow Food è proprio “Spesa Quotidiana”, corsi in cui si insegna alle persone come fare per non accumulare sprechi. Una volta, a insegnarci queste cose erano le nonne. Mi ricordo che quando andavo al mercato con mia nonna mi vergognavo perché a tutti i banchi lei chiedeva lo sconto, chiedeva informazioni, approfondiva… era una roba pazzesca, bravissima nella contrattazione e comparazione del prodotto: il risultato finale era un rapporto qualità/prezzo eccellente e non certo di lusso, ed era amica dei contadini. Si impegnava tanto tra i banchi del mercato perché voleva il prodotto migliore al prezzo migliore per i suoi nipoti: era quella la cosa più importante! Bisogna ritornare a quei valori, come vedi non è una questione di soldi ma di dedizione del giusto tempo al cibo, a ciò che ci nutre.

Slow food

Le imprese, spesso, o decidono di sposare un atteggiamento responsabile sulla base di pressioni esterne oppure, ignorano tutto ciò e valutano semplicemente il profitto. Per queste ultime un comportamento più responsabile significa costi più elevati e meno margine di profitto. Come si può uscire da questa trappola?

Occorre abbandonare l’ottica del profitto come unica strada/proposito per l’azienda. Parlando di cibo bisogna avere il senso del limite perché parliamo di un ambito che ha un senso del limite vero, per natura.

Lo scopriamo ogni volta che piove, banalmente, quanto sia rischioso non considerare i limiti naturali: ogni volta che piove succede qualche disastro, non è un caso. Non sono un caso queste alluvioni, non sono un caso le montagne che franano non è un caso tutto questo. Io quello che posso consigliare parlando di agricoltura, di ambiente, di natura è di avere questo senso del limite, e la prima cosa che si deve fare è pensare al benessere delle persone. Allora se uno pensa al benessere delle persone ha già trovato la prospettiva. Perché non è vero che non si può vivere rispettando l’ambiente. Io non sono contro il profitto, non sono contro l’imprenditoria, preciso però che forse l’ambito agroalimentare è uno di quegli ambiti in cui la grandezza può essere un limite; rende complesso avere la giusta attenzione per i ritmi della natura, rende complicato avere quel miscuglio di cose che spesso sono necessarie per mantenere un habitat ambientale intatto. Probabilmente l’ambito agricolo è un ambito che potrebbe essere fatto di cooperative più che di aziende, potrebbe essere fatto di realtà che si consorziano, potrebbe essere fatto di tante piccole realtà familiari. Veramente, credo che l’agricoltura familiare possa essere una risposta da questo punto di vista.

Globalizzazione e difesa delle biodiversità due mondi paralleli?

Sono diversi per il concetto di fondo. La globalizzazione porta, non necessariamente ma molto spesso, a una standardizzazione. Standardizzare vuol dire perdere la biodiversità perché tende all’omologazione e porta soprattutto a una conoscenza sempre più superficiale. Se devo pensare a consumare dei pomodori che arrivano dall’altra parte del mondo, mi vien difficile pensare di andare ad approfondire da quali territori arrivano perché è troppo lontano da me. Inoltre, lo stesso commerciante, ovvero colui che mi vende il prodotto, non ha quell’informazione. Io parto dal presupposto che chi vende deve sapere cosa mi vende per questo mi sento più sicuro se il commerciante è il produttore o molto vicino a questo. La biodiversità oltre al fatto che ci permette la scelta, ci permette la sovranità alimentare. Oggi è a livello internazionale che si decide quanto costano i pomodori, le materie prime. Questo vuol dire che non vale più l’assunto che un pomodoro mi costa quanto costa produrlo, punto. Le produzioni non sono tutte uguali, soprattutto quelle non industriali e spesso non rientrano in quei costi spalmati su larga scala. Penso anche che questo concetto di globalizzazione anche al di là del cibo, non abbia funzionato anche da un punto di vista economico. Ci troviamo in una delle più grandi crisi di tutti i tempi. Di sicuro, ribadisco, non può funzionare nell’agricoltura. Non può funzionare in un ambito che mette al centro le persone e la madre terra, la natura e quindi la tutela dell’ambiente. Il contrasto tra globalizzazione e biodiversità nasce lì. Questo non vuol dire che non ci possa essere una globalizzazione delle idee, una globalizzazione delle esperienze, una globalizzazione che ti porta a confrontare situazioni: la globalizzazione non è necessariamente negativa, la globalizzazione delle informazioni è enormemente positiva.

Terra Madre è una globalizzazione di tante piccole realtà locali che si mettono insieme, discutono, si confrontano, ognuno ritorna poi sul suo territorio portando a valore il confronto. Ecco, il nostro concetto di globalizzazione positivo; non può prescindere da quello che mantiene vive le diversità.

Ci parli di alcuni esempi virtuosi che hanno saputo cogliere, mettere a punto e restituire alla comunità risultati apprezzabili dal punto di vista di garanzie sociali e ambientali.

Di esempi virtuosi ne abbiamo una marea. Il primo che mi viene in mente è la comunità di Torre Guaceto in Puglia. E’ una riserva, un parco naturale. Lì è nata una prima comunità del cibo legata al pomodoro, poi è diventata una comunità della pesca sostenibile. Un nostro responsabile in una situazione di pesca non più sostenibile, ha esortato i pescatori per un anno a non pescare e a ritornare a farlo con modalità e strumenti differenti. I pescatori hanno adottato strumenti e metodi di pesca sostenibile e ora sono una best practice che esportiamo in giro per il mondo. Parlando di carne, invece mi viene in mente la Granda. La Granda è stata uno dei primi Presìdi che abbiamo aperto sulla razza piemontese. È nato con pochissimi produttori perché segue regole molto ferree. Ora questo consorzio è diventato un’associazione di produttori sempre più grande, una delle più grandi realtà italiane dal punto di vista numerico del coinvolgimento dei produttori. Ecco se parlate con loro vi spiegano come sia impossibile vendere un hamburger a un euro ed essere buono.

Poi vi è il progetto degli “Orti in condotta”: orti scolastici dove i bambini vivono delle esperienze pratiche, imparano a conoscere la stagionalità e l’ importanza della cura per la terra. Oggi abbiamo oltre 500 orti in tutta Italia. Per fare un esempio solo a Livorno ci sono 20 scuole che hanno l’orto, che l’hanno fatto diventare elemento di didattica. Attraverso il cibo tu veramente puoi spiegare tutto ai bambini, puoi farli diventare partecipi.

Negli anni abbiamo anche messo in piedi un progetto che si chiama “Nutrire Milano” che ha anticipato i temi dell’Expo e che ha creato un mercato contadino a Milano presso la Fabbrica del Vapore: adesso questo mercato vede la collaborazione di oltre 100 aziende che vengono mappate e controllate. Questo fa parte del nostro progetto “Mercati della Terra” che viene incontro alle cose che dicevamo, ovvero cercare di eliminare o ridurre l’intermediazione: nei disciplinari dei nostri Mercati della Terra uno dei punti cardine è che la merce la vendono i produttori. Tra le altre cose positive mi viene da citare il “Salone del gusto e Terra Madre” che racchiude un po’ la nostra idea di accrescere il livello di attenzione sulle tematiche a noi care. La prima edizione risale ormai al 1996.

 

Quanto conta il fattore umano, quindi il management e la leadership nella promozione di una strategia eticamente efficace nell’ambito delle aziende agroalimentari?

Per tutte le cose fin qui dette è fondamentale. E’ centrale nel senso che l’attenzione alle persone è più facile che provenga da chi ha una sensibilità in tal senso. In quest’ambito specifico direi che è molto più importante scegliere un leader che abbia queste capacità/sensibilità, piuttosto che una persona che magari abbia grandi capacità da un altro punto di vista e basta. Io arrivo dal mondo associativo, dal mondo del volontariato, quindi forse è un po’ più facile, per me pensare in questi termini. E’ comunque evidente come nel mio mondo il lato umano faccia la differenza, perché è chiaro che ti approcci con un livello di sensibilità differente soprattutto su certe tematiche.

 

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