Paolo Gallo è responsabile delle Risorse Umane al World Economic Forum a Ginevra. Nella sua carriera – in Banca Mondiale, Citigroup, Banca Europea della Ricostruzione e Sviluppo e all’International Finance Corporation di Washington – ha lavorato in 70 nazioni diverse e collaborato con ogni genere di organizzazioni. Speaker in eventi internazionali sulla leadership e lo sviluppo personale, è transformational coach per persone che vogliono cambiare la propria vita, non solo professionale. Scrive su Harvard Business Review Italia, su Forbes e sull’agenda del blog del WEF, collabora con svariate, prestigiose università ed è autore del libro “La bussola del successo; le regole del successo restando liberi”.
1. In cosa consiste esattamente il tuo lavoro e quali sono le sfide maggiori che devi affrontare ogni giorno?
Essere Chief Human Resources Officer significa tante cose – come è vero per qualsiasi lavoro – ma, tipicamente, è possibile individuare una serie di attività standard che ogni CHRO si trova a svolgere, indipendentemente da quale sia l’organizzazione per cui lavora. Mi riferisco, a titolo di esempio, alle classiche attività di sourcing dei talenti, ingaggio e motivazione delle stesse, definizione delle policy che regolano l’operatività delle persone in azienda e, più in generale, al setting e alla gestione delle strategie afferenti le risorse umane. Tutto ciò vale, in diversa misura, in qualsiasi industry ed è compito del CHRO adattare i vari strumenti concettuali ed operativi di cui dispone alla specifica realtà in cui si trova ad operare. Questo continuo esercizio di adattamento è l’altra parte del mio lavoro. Per comprendere al meglio cosa vuol dire essere CHRO all’interno del World Economic Forum (WEF), l’organizzazione per la quale lavoro, è doveroso innanzitutto ricordare come il WEF sia sostanzialmente “una realtà composta da tante anime diverse”: ecco, uno dei miei compiti principali, in qualità di CHRO, è proprio quello di tenere unite tutte queste anime diverse, facendo in modo che esse possano comprendersi e dialogare al meglio tra loro. Spesso è un compito tutt’altro che semplice, poiché non si dispone, ovviamente, di leve gerarchiche nei confronti delle varie, importanti personalità (e.g. CEO, Presidenti, etc.) che si succedono agli eventi del WEF e l’unico modo per garantire un dialogo continuo e costruttivo, superando anche barriere culturali profondamente radicate, è quello di ricorrere a strumenti soft di suasion. Per far questo, è essenziale ascoltare e capire chi si ha di fronte, per instaurare un rapporto basato in primis sulla fiducia reciproca: una volta conquistata la fiducia di una persona, al di là di quale sia il ruolo che quella figura ricopre, è possibile provare a guidarla in un percorso di dialogo con il resto del mondo. Sono profondamente convinto del potere della fiducia, un bene prezioso da conquistare e mantenere negli anni, come motore per qualsiasi tipo di rapporto umano.
2. Quale è stato il momento professionale più bello e quello più difficile che hai vissuto?
Sono stato fortunato ed ho vissuto tanti momenti belli nel corso della mia carriera e, tra questi, quelli che ricordo con maggiore soddisfazione sono sicuramente legati all’aver visto crescere e progredire collaboratori che io stesso avevo assunto. Per esempio, quando lavoravo in World Bank in qualità di Chief Learning Officer gestivo un team di 180 persone, di cui 5 come direct reports e, in ognuno di loro, vedevo enormi potenzialità che, nel mio piccolo, ho cercato di far sviluppare ed emergere. Quei cinque colleghi sono cresciuti velocemente negli anni successivi, anche dopo la mia uscita dalla banca e, ancora oggi, a volte mi chiamano per ringraziarmi di quanto trasmesso loro. Il successo degli altri, se vi abbiamo in qualche modo contribuito, può essere un buon metro di valutazione del nostro successo come manager, un po’ come avviene per i padri: se i loro figli avranno successo, vorrà dire che qualcosa di buono lo hanno fatto anche loro.
Il momento più difficile della mia carriera lo ricollego invece ad una esperienza ormai abbastanza lontana nel tempo: avevo venticinque anni ed avevo da poco iniziato a lavorare in Citibank. La banca decise in maniera repentina, come spesso accade in certi contesti, di ridurre drasticamente la forza lavoro. Uno dei primi ad accettare il package di uscita fu proprio il mio capo e, di conseguenza, io mi ritrovai, dall’oggi al domani e sostanzialmente da neo-laureato, a gestire da solo l’intero processo di restructuring. Vivere quell’esperienza, risultato diretto della durezza gestionale che alcune organizzazioni possono assumere in certi momenti contingenti, ha contribuito molto nel mio percorso di crescita.
3. Cosa significa per te il termine “leadership” e come cerchi di portarla quotidianamente all’interno del tuo ambiente lavorativo?
Se si prova a digitare la parola “leadership” su Google, vengono fuori migliaia di risultati: sono state date innumerevoli definizioni e tantissimi sono i libri scritti sull’argomento. Dal mio punto di vista e sulla base della mia esperienza umana e professionale, la leadership – al netto di doverose caratteristiche tecniche che però si danno per scontate – è composta, essenzialmente, da due fattori. Il primo fattore è il coraggio nelle proprie convinzioni: non sto parlando di testardaggine, ma di una coerenza necessaria rispetto a determinate condizioni morali di fondo, che ognuno è libero di scegliere e che dovrebbe provare a rispettare lungo l’intero proprio percorso professionale, rifuggendo, ad esempio, da facili ed allettanti opportunismi del momento. Il secondo fattore, invece, risiede nel riuscire a valutare e considerare i costi emotivi e personali che chiunque potrà dover sostenere nel seguire la tua leadership: è di fatto una forma di solidarietà e vicinanza umana nei confronti degli altri. Per guidare un gruppo di individui verso un obiettivo comune è necessario innanzitutto essere uno di loro, facendolo percepire distintamente e ciò è possibile esercitando empatia: dunque, capire gli altri e farsi capire.
4. Cosa significa per te il termine “innovazione” e come cerchi di portarla quotidianamente all’interno del tuo ambiente lavorativo?
Per me innovazione non è sinonimo di tecnologia, bensì di un modello mentale basato sul non accontentarsi mai dello status quo. Faccio un esempio: la scorsa settimana (20 gennaio, n.d.r.) è terminato il WEF Annual Meeting 2017 di Davos e, già il prossimo weekend, sarò con il resto del Management Committee per un focus su cosa faremo meglio il prossimo anno. Morale: abbiamo appena terminato una cosa ma già ci chiediamo come possiamo migliorarla. Questo è certamente solo un piccolo esempio, ma se lo si legge in maniera più ampia e si spingono le persone a non adagiarsi mai sui risultati ottenuti, riuscendo ad instillare in loro il desiderio di andare sempre oltre, allora si attiva quel processo vitale chiamato progresso. Nelle organizzazioni, per riuscire in questo, serve un forte cultura organizzativa, aperta al nuovo e alla possibilità che là fuori ci sia già qualcuno che fa quello che facciamo noi, ma in modo diverso, migliore. In definitiva, penso che l’innovazione sia un approccio alla vita: ciò che oggi imparano i nostri ragazzi tra un paio di anni sarà superato ed è per questo che dobbiamo insegnare loro a rimettersi sempre in gioco.
5. La tua citazione preferita?
Ho tante citazioni che mi accompagnano e a cui sono legato, ma qui vorrei riportarne una di Mark Twain: “I due giorni più importanti della tua vita sono quando nasci e quando capisci il perché”. Questa citazione, che ho riportato anche nel mio ultimo libro, si riferisce alla capacità di ricercare ciò che davvero vuoi fare nella tua vita, ciò per cui sei portato, e di perseverare in questa ricerca fin quando non l’avrai finalmente trovato. Si tratta, quindi, di seguire la passione e trovare, tramite essa, la propria mission.
Grazie mille Paolo per il tempo dedicatoci e per l’interessante conversazione.