Vi proponiamo un altro utile post approfondimento a cura di Dhebora Mirabelli e Alessio Muccini, alumni del MIP EMBA – Roma nel 2012. La tematica affrontata è la CSR come modello di perequazione sociale. Qui il link al post riguardante la delocalizzazione, CSR e leadership, degli stessi autori. Buona lettura!
L’attività di recruitment del capitale umano per l’impresa è forse una delle responsabilità personali dell’imprenditore che più di ogni altra nel lungo periodo caratterizza lo skill dello stesso, la mission aziendale e il suo approccio strategico. Costituisce la gestione del rischio di impresa specifico che in ottica di CSR ha determinato le tappe storiche del cambiamento e dell’innovazione della società civile oltre che economica.
L’impresa diventa Comunità.
È un concetto che inizia a svilupparsi in due parti opposte del mondo e in due importanti realtà industriali: Toyota e Olivetti.
Nel primo caso il processo nasce a seguito di nuove condizioni poste all’imprenditore dalla società civile. In particolare, intorno agli anni ’50, in Giappone si affermarono due importanti principi:
- posto fisso fino alla pensione per i dipendenti
- incrementi salariali in base all’anzianità maturata in azienda.
Toyota doveva quindi fare i conti con personale difficile da licenziare e stipendi invariabili rispetto alla professionalità e all’incarico svolto. Da qui l’esigenza di dare un’impronta sempre più sociale all’organizzazione aziendale.
Non si poteva puntare sul singolo e sulle eccellenze per massimizzare produzione, qualità e profitti ma sulla “massa”. L’imprenditore era personalmente responsabile nell’ingegnarsi e trovare un modello nuovo di gestione delle risorse umane che rispondesse al nuovo contesto e processo sociale, istituzionale in atto.
Nacque così quello che fu definito il “modello paternalistico” che:
- trasformava tutti gli operai in tecnici specializzati ai quali affidare anche il controllo di qualità e non solo, quindi, la mera opera di assemblaggio (Toyota Production System: un metodo produttivo che sfrutta al meglio le risorse umane e quelle tecniche);
- assegnava loro maggiori responsabilità;
- sviluppava senso di appartenenza e identità al gruppo.
Tutto si svolge internamente all’azienda: tutti sono l’azienda.
L’impresa diventa una vera e propria Comunità, nel senso che tutta la vita dei singoli vi fa riferimento.
Dall’altra parte del pianeta, Adriano Olivetti sosteneva già nel libro “L’ordine politico delle comunità e Società Stato Comunità che «Né lo Stato né l’individuo possono da soli realizzare il mondo che nasce. Sia accettato e spiritualmente inteso un nuovo fondamento atto a ricomporre l’unità dell’uomo: la Comunità concreta».
L’imprenditore introdusse le “Unità di Montaggio Integrate”, che rendevano gli operai responsabili dall’inizio alla fine del processo di realizzazione del prodotto, con maggiore autonomia lavorativa. Accanto a queste novità, per la prima volta, Adriano Olivetti porta in azienda il concetto di welfare privato a beneficio dei suoi dipendenti e dei propri familiari, colmando le lacune del servizio pubblico e anticipando i tempi.
Tutta la vita nell’azienda.
L’azienda diventa complementare e partecipa attivamente alla vita esterna dei singoli: questo il concetto di Impresa quale Comunità concreta.
Oggi, le sfide dei nuovi mercati globali e la produzione delle aziende fuori territorio hanno richiesto di adeguarsi ai mercati lavorativi internazionali seguendo un modello più competitivo anche per i profili professionali e le tipologie di rapporto contrattuale.
Come si può tradurre oggi in tale contesto il concetto “L’impresa diventa Comunità”?
Rispetto al modello Toyota e a quello Olivetti, oggi il contesto normativo, sociale ed economico ci offrono:
- flessibilità nel mondo del lavoro sempre maggiore e variegata;
- dipendenti e professionisti sempre più specializzati;
- ambiti di concorrenza più ampi e globali.
L’imprenditore sembra, avere come unica strada per far diventare la propria impresa Comunità quella di socializzare il proprio rischio d’impresa con il professionista o il lavoratore destinato a diventare sempre più “autonomo”.
Il mercato sembra chiedergli di spogliarsi di parte dell’impresa a beneficio di competenze e skill professionali destinati a essere sempre di più formati all’esterno del suo capitale patrimoniale, economico- finanziario ed umano da Università, Istituti professionali e Business School. Questi, “sfornano” con una frequenza e velocità impressionante personale altamente specializzato e con competenze gestionali e manageriali che, per essere sfruttate al meglio all’interno dell’azienda, richiedono l’esercizio discrezionale di ruoli e funzioni.
Come si concilia tutto ciò con l’identità di gruppo e il senso di appartenenza a un’unica realtà per tutta la vita?
L’unico modo sembrerebbe essere quello di sfumare la linea di demarcazione tra imprenditore e dipendente verso la creazione di modelli che portano quest’ultimo, pian piano, a diventare partner del secondo attraverso, ad esempio, il riconoscimento accanto ad un salario fisso di partecipazioni societarie. Ma se di certo così si raggiunge il moderno senso di condivisione e shared value non solo economico ma anche valoriale tra datore di lavoro e lavoratore, resta aperto il nodo come possa, in tali casi, l’azienda diventare complementare e parte attiva nella vita esterna dei singoli.
In poche parole, se molte formule oggi in uso anche se ancora in forma embrionale, ci consentono di far salvo nel moderno sistema economico, istituzionale e sociale, il “modello paternalistico” Toyota quello che ancora ci manca, secondo noi, è ragionare più approfonditamente su quel nuovo fondamento più attuale, innovativo e coerente atto a ricomporre l’unità dell’uomo: la “COMUNITÀ CONCRETA”, di cui illuminò per prima il panorama italiano Adriano Olivetti.