Sfumature di CSR nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani [Prima parte]

Questo nuovo guest post, suddiviso in due parti, è frutto della collaborazione tra Dhebora Mirabelli, alumna del MIP EMBA – Roma nel 2012, e Sandro Calvani, consigliere speciale per la programmazione strategica presso la Mae Fah Luang Foundation (sotto il patrocinio Reale), a Bangkok, Thailandia, Docente di politiche per lo sviluppo sostenibile, affari umanitari e Responsabilità Sociale dell’Impresa all’Asian Institute of Technology e alla Webster University. Direttore emerito del centro ASEAN sugli obiettivi di sviluppo del millennio delle Nazioni Unite (ARCMDG), partner di ASVI Social Change in Asia. Nei prossimi giorni pubblicheremo la seconda parte dell’articolo. Intanto, buona lettura!

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

Così nel 1948, con una sorprendente semplicità ed una chiarezza durissima, le prime due righe della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani lanciavano un nuovo modo di essere del genere umano subito dopo lo choc globale della Seconda Guerra Mondiale. Non solo i popoli del mondo si ridefinivano in una specie di riforma della Costituzione dell’umanità, ma addirittura sancivano il principio comune di tutte le relazioni tra governi, imprese, società civili, generi e generazioni: “devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

Un principio forte, unico e comune. Fratellanza, come tra fratelli e sorelle, come in famiglia. Non solo solidarietà o filantropia. Non “responsabilità sociale” oppure “di impresa”.

E’ un principio unico per tutti quanti i sette miliardi di teste e cuori di persone. Al di là di religioni, culture e sistemi politici allora molto contrapposti tra Est, Ovest, Nord e Sud del pianeta.

Con questo articolo ci chiediamo se è una questione che si potrebbe mettere all’ordine del giorno del prossimo CdA, o magari del prossimo management retreat?

Diciamoci la verità. Ci sono illustrissimi CEO, capi di Stato e di governo che considerano quelle due righe come idee naif per hippy e sognatori. Ammettiamo che almeno loro sono coerenti, non ci credono e basta.

Altri invece, e sono la maggior parte, dicono di crederci davvero e sparano violentissime filippiche contro chi abusa dei diritti umani, un giorno tirano sulla Corea del Nord, un altro sulla disuguaglianza di genere in Arabia Saudita.

Ma i malfattori e miscredenti sono sempre gli altri e altri “lontani”, quasi degli extra-terrestri. Ma poi la maggior parte delle imprese pagano salari più bassi alle donne, rispetto agli stessi contratti per gli uomini.

Decine di imprese dell’alta moda se ne infischiano di sporcare l’ambiente con i loro scarichi di sostanze tossiche usate all’inizio della loro catena di produzione.

Si può dunque amare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani in tante diverse sfumature?

Solo dichiarare di amarla e poi tradirla, oppure sfumarla parecchio ogni volta che non fa comodo? Come i tanti che si accontentano di rispettare 29 articoli su 30, dimenticando magari quelli “scomodi”, come l’articolo 13 sulla libertà di movimento senza frontiere, o l’articolo 19 sulla libertà di opinione.

Se invece la Dichiarazione la prendessimo sul serio rappresenterebbe un ottimo disegno socialmente inclusivo di sostenibilità dello sviluppo economico, industriale e del mercato.

Infatti se si accetta la dimensione essenziale della fratellanza, si deve concludere che il mondo è una grande famiglia umana. Allora ogni soggetto attivo della società è ugualmente un protagonista responsabile della comunità globale, sia esso un’impresa, università, business school, sindacato, associazione di categoria, istituto bancario, assicurazione, studio professionale, amministrazione o servizio pubblico, famiglia e qualsivoglia gruppo di persone.

Lasciandosi ispirare tutti dalla Dichiarazione, sarebbero a tutti ben chiari i diritti e doveri di ogni comunità verso il singolo e viceversa; ovvero si paleserebbero senza dubbi la pienezza e la forza della responsabilità sociale.

Ma, attenzione al dettaglio dove si nascondono le trappole: responsabilità sociale della persona o dell’impresa?

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