La direttiva 2014/95/UE del 22 ottobre u.s. sulla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità, recante modifiche alla precedente direttiva 2013/34/UE, prevede che nel 2017 talune imprese e taluni gruppi di grandi dimensioni includano nella relazione consolidata sulla gestione una dichiarazione consolidata di carattere non finanziario.
Questa, dovrebbe contenere almeno informazioni ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva in misura necessaria alla comprensione dell’andamento del gruppo, dei suoi risultati, della sua situazione e dell’impatto della sua attività. Dovrebbe, specificatamente alla diversità, contenere informazioni sul genere, l’età, sulla distribuzione geografica e sul background formativo dei componenti dei propri organi direttivi e di controllo.
I presupposti relativamente alla necessità di pubblicare informazioni di carattere non finanziario non sono altro che gli obiettivi della politica economica comunitaria di trasparenza, pertinenza, comparabilità e uniformità dei dati nonché il rafforzamento e chiarimento in materia degli obblighi in vigore.
Relativamente invece alla seconda parte, ovvero la richiesta di informazioni sulla diversità, il presupposto sembra essere – suffragato da numerosi studi e ricerche – che la mancanza di eterogeneità, valori, competenze e opinioni contribuisca ad impoverire le idee, scoraggiare il confronto e quindi il dibattito a discapito dell’adozione di strategie innovative.
Ma quali le informazioni di carattere non finanziario rilevanti che negli ambiti circoscritti devono essere comunicate?
All’art. 2 della direttiva 2013/34/UE, si definisce rilevante quell’informazione la cui omissione o erronea indicazione potrebbe ragionevolmente influenzare le decisioni prese dagli altri utilizzatori rispetto al bilancio dell’impresa.
Gli “altri utilizzatori” sono gli stakeholder dell’impresa che secondo il metodo dell’apprendimento reciproco, potrebbero, attraverso l’interazione attiva (CSR 2.0. proposta da Porter già nel 2007) portare un vantaggio all’impresa che decide democraticamente di esporsi al giudizio dei consumatori dei suoi servizi o prodotti e fare della customer satisfaction una metodologia di confronto utile all’analisi strategica di mercato.
Diversamente, Hirschman in una delle sue lezioni di economia dello sviluppo, riprendendo quanto scritto nel suo libro “Exit, Voice and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations and the State”, metterebbe in guardia l’imprenditore sordo verso le istanze dei suoi consumatori e le loro esigenze informative rispetto al rischio dell’insorgere di meccanismi di protesta, per l’appunto di “exit”, ovvero uscita o abbandono della loro affezione rispetto a quel bene o a quel prodotto.
Non è un mistero che l’ insoddisfazione di un consumatore verso la qualità di un prodotto o la sua percezione negativa verso una data impresa può generare dinamiche di “squilibrio” che, qualcuno ingenuamente e/o furbamente ricollega all’ambito solo della reputazione, ma che di fatto genera conseguenze negative certe sul reddito aziendale: trattasi di vera e propria perdita di clienti e quindi di fatturato.
Secondo questa interpretazione, è rilevante rendere dettagliatamente noto ciò che non finanziariamente “produce” l’impresa, ovvero, tutto quello che nel cotesto sociale e nella sua percezione etica moderna acquisisce un valore tale da avere delle ripercussioni finanziarie importanti sul reddito della propria impresa poiché influente sulle scelte del consumatore finale.
Valori etici e sociali = valori economici
La scelta che potrebbe fare l’imprenditore sotto tale assunto è dare “voice” alla disaffezione del consumatore considerandola influente per le proprie scelte aziendali.
Hirschman, al contrario di Friedman, credeva nelle riforme sociali. Ma ancor più credeva in un processo di riforme attivato dalla volontà collettiva, di chi si organizza per cercare da sé la risposta ai problemi da cui è afflitto. Questo, perché la volontà collettiva è influenzata da valori etici e sociali mutevoli nel tempo, difficilmente cristallizabili in un processo decisionale derivante dall’alto: non fosse altro perché tali valori si prestano incessantemente a rilanciare sfide nuove e inaspettate.
E in merito alla “loyalty”?
Di certo è l’aspetto più confutabile della questione, soprattutto, se si pensa ai destinatari privilegiati della direttiva 2014/95/UE del 22 ottobre u.s. sulla comunicazione di informazioni di carattere non finanziario e di informazioni sulla diversità: talune imprese e di taluni gruppi di grandi dimensioni.
Potrebbe essere attivare proprio il processo inverso, partire dalle PMI sostenibilmente più autentiche e convinte oltre che per natura in taluni casi dedite a fare della customer satisfaction una propria mission aziendale, che garantirebbe la collettiva riforma sociale verso la CSR 2.0.
Se il problema o la sensibilità verso la loro esenzione da qualsivoglia obbligo informativo di carattere non finanziario riguarda esclusivamente l’eccessivo onere per loro di comunicare quello che si è, allora perché non pensare ad un’azione di networking atta a creare una forma di “CLUSTER 2.0” a beneficio del “think small for the big social and economics developement”?