Le barriere all’entrata nel mercato del lavoro a danno delle donne: un pesante gap in termini di PIL dei Paesi industrializzati o solo il rischio di una “bolla occupazionale”? L’opinione dei due alumni EMBA MIP – Politecnico di Milano Dhebora Mirabelli e Alessio Muccini in un nuovo appuntamento della rubrica CSR @ MIP
Il Gender Inequality, Growth and Global Aging del 2007 dell’ONU evidenziava che il raggiungimento della parità tra uomini e donne nella partecipazione economica, avrebbe avuto un impatto massivo sullo sviluppo economico: il PIL degli Stati Uniti avrebbe potuto beneficiare di un aumento di circa il 9% e quello dell’Eurozona del 13%.
Nello specifico, venne calcolato lo slancio potenziale del PIL in caso di reale eguaglianza all’accesso al lavoro per singolo Paese. I risultati furono molto chiari soprattutto per l’Italia, che avrebbe potuto registrare una crescita potenziale del PIL del 20%.
Più cautamente, uno studio della Banca d’Italia del 2012 riportava che un maggiore coinvolgimento delle donne nell’attività economica era un’opportunità per il nostro Paese: il conseguimento dell’obiettivo (fissato a livello europeo dal trattato di Lisbona per il 2010) di un tasso di occupazione femminile (escluse le donne imprenditrici e le imprese rosa) al 60% avrebbe comportato, anche ipotizzando un effetto negativo della produttività di 0,3 punti percentuali, un aumento del Pil fino al 7% circa.
Vero o Falso?
Ebbene, la cosa più sconcertante non è tanto lo scetticismo di fronte proiezioni tanto ottimistiche verso l’effetto leva di un’economia rosa, per paesi come il nostro e in generale per tutto l’occidente, quanto il fatto che la domanda non ha risposta e non ha riscontri empirici possibili. La parità tra donne e uomini in questi ultimi anni – caratterizzati dalla crisi economica – ha aumentato solo il suo gap di disparità nei paesi industrializzati.
Tassi di crescita del PIL così elevati oggi li ritroviamo solo nei mercati emergenti.
Nell’indice sul “gender gap” 2014 calcolato dal World Economic Forum (WEF) l’Italia sale di due posizioni, dalla 71esima alla 69esima su 142 paesi, ma si trova – in termini relativi – dietro al Bangladesh e alla Repubblica Kirghiza, confermandosi all’ultimo posto tra i principali Paesi industrializzati.
L’anno migliore è stato il 2008, quando è arrivata al 67esimo posto. Dopo, iniziò la crisi!
Guardando l’indicatore specifico sulla partecipazione economica, vediamo l’Italia scivolare al 114esimo posto (e ultimo in Europa) dal 97esimo del 2013 e dal già non esaltante 85esimo del 2008.
Siamo 129esimi per l’uguaglianza salariale per il medesimo lavoro: laddove un uomo guadagna 40mila dollari l’anno, la donna con le stesse mansioni ne percepisce in media circa 22mila.
Purtroppo, il Global Gender Gap 2014 ci dice che è ormai chiara la correlazione tra parità di genere e performance economica. È la maggior partecipazione femminile al mondo del lavoro che rende più competitivo un Paese rispetto a un altro. Questo dato è basato ora anche su un confronto attuale e non solo su un’ipotetica e fiduciosa stima di crescita futura.
Lasciateci, inoltre, dire che, considerato che la disparità di genere delle opportunità lavorative in 9 anni si è ridotta solo del 4%: non crediamo francamente sia così importante una qualsivoglia ottimistica proiezione economica. Per quanto accurata e scientifica essa sia, questa non potrebbe che conservare il retrogusto di un mero effetto annuncio per l’Italia.
Passando dal PIL del Paese a quello pro capite non possiamo tacere che gli italiani, dal 1999 (anno introduzione dell’euro) al 2014 hanno perso in media 3 punti percentuali in termini di ricchezza individuale.
L’Italia (come sottolinea Romano Benini nel suo ultimo libro “Nella tela del ragno”) è l’unico tra i paesi dell’euro ad aver registrato una diminuzione della ricchezza delle persona: i nostri concittadini dell’Eurozona in media sono diventati più ricchi del 10% nello stesso periodo temporale preso in considerazione.
Il problema, oltre che nella crisi, è proprio nell’Italia
Considerato che le donne:
- sono 1.783.662 unità in più degli uomini;
- guadagnano circa il 45% in meno;
- non raggiungono il 50% del tasso di occupazione e, che nel sud questo è di venti punti percentuali più basso di quello degli uomini;
- vivono mediamente 5 anni di più in un Paese che di certo, considerato il disequilibrio del sistema pensionistico, oggi non è un Paese per i futuri vecchi;
- rappresentano solo il 12% della rappresentanza imprenditoriale;
- si laureano prima, con voti più alti e in numero maggiore rispetto agli uomini
non stupisce che, mentre i politici ci distraggono da questi dati parlandoci di “quote e/o bollini rosa”, un uomo in crisi ed esasperato dalla sua donna che “scalpita per la parità” cerchi di pareggiare i conti facendosi giustizia da sé. L’unico dato che cresce in modo preoccupante e allarmante, nel nostro Paese più che in altri (non smette di ricordarcelo l’ONU), è quello sul femminicidio e la violenza contro le donne.
Vi chiederete cosa c’entri tutto questo con la parità occupazionale, nel sistema economico in Italia e con la crisi economica di un Paese.
Vi rispondiamo citando l’ex Presidente Giorgio Napolitano nel suo discorso tenutosi nella celebrazione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre 2013: ”È proprio la maggiore eguaglianza conseguita dalle donne sul lavoro e nelle professioni che può suscitare pericolosi atteggiamenti di reazione”.
Ancora una volta business e problemi sociali si incrociano nelle nostre analisi e nei nostri articoli.
Il problema è che l’autonomia economica per una donna spesso è l’unica via d’uscita dallo status di vittima di questi meccanismi “di reazione”: è il classico caso del gatto che si morde la coda. Immedesimandoci in tutte le donne ci chiediamo, in attesa di azioni positive da parte delle istituzioni, quali siano i mezzi e gli strumenti più idonei per una legittima difesa proporzionata all’offesa subita.
Se fossimo impresa … forse opteremmo per l’internazionalizzazione!