#18 Antonio Cabrini, Allenatore

Antonio Cabrini, lo #spiritoleader di questa settimana, di successi, se ne intende. Protagonista di grande spessore e simbolo di un calcio pulito, è stato il terzino simbolo della Juventus e uno dei pochissimi calciatori ad aver vinto tutte le principali coppe europee e mondiali.

Ha fatto parte della mitica Nazionale del 1982, vittoriosa ai mondiali spagnoli. Oggi, dopo diverse esperienze da allenatore è il CT della Nazionale femminile ed è impegnato come Coach in ambito manageriale a più’ livelli.

Nel suo recente libro “Non aver paura di tirare un calcio di rigore” sceglie 11 valori indispensabili per diventare campioni, 11 come in un’ideale “squadra del successo”: passione, gioco, talento, fatica, ascolto, istinto, paura, tenacia, mentalità, lealtà e stile.

Che passione si trovi in prima posizione non è casuale. La storia dello sport lo conferma, con incredibili aneddoti di trasporto, abnegazione, leadership.

Questa settimana, su #spiritoleader ve ne raccontiamo due: il primo tratto dalla pallacanestro, il secondo – quanto mai attuale! – dal calcio.

La lezione di Michael Jordan

La prima qualità di un leader è la passione, la prima cosa che bisogna avere dentro di sé per raggiungere risultati e successi. Con la passione verso un obiettivo o un lavoro si possono affinare altre caratteristiche come la tenacia, la leadership. Senza la passione tutti gli altri modi per raggiungere il risultato hanno poco significato.

Michael Jordan non ha fatto la storia del basket. Michael Jordan è la storia del basket. Sei titoli NBA con i Chicago Bulls, 1 trofeo NCAA all’Università con North Carolina, 2 ori olimpici, decine di premi come migliori giocatore del campionato, dei playoff, dell’All Star Game. Semplicemente, il miglior giocatore che abbia mai calcato un parquet con una palla a spicchi in mano.

Soprattutto, uno dei giocatori più letali e decisivi nei momenti in cui la palla pesa come una lavatrice, e nessuno vuole assumersi la responsabilità del fatidico ultimo canestro. Era a lui che i suoi compagni guardavano. Il loro punto di riferimento nei momenti che contano.

Di tiri “His Airness” ne ha messi di difficili, di incredibili, di impossibili e di storici. Come quello che è passato alla storia semplicemente come “the Shot”. Il tiro che ha contribuito a spaccare in due la serie contro i favoriti Cleveland Cavaliers, e spianare la strada verso il primo dei 6 anelli che oggi adornano le sue dita. 

Nella mia carriera ho sbagliato più di 9.000 tiri. Ho perso quasi 300 partite. In 26 gare mi è stato affidato il tiro decisivo, e l’ho sbagliato. Ho fallito tante, tantissime volte nella mia vita. È grazie a questi fallimenti che ho raggiunto il successo.

Il suo segreto? Tenacia e passione. Quella messa per allenarsi un anno intero, dopo essere stato scartato alle selezioni della squadra di basket del proprio liceo. Quella che ha continuato a mettere in campo partita dopo partita, allenamento dopo allenamento, fino a 40 anni suonati.

Certo, Jordan era anche sterminato e innato talento. Lui sapeva volare, galleggiare in aria mentre gli altri venivano ineluttabilmente tirati giù dalla forza di gravità. Poteva schiacciare in faccia ad avversari alti 20 cm più di lui con la semplicità con cui ci si allaccia gli scarpini.

Ma non avrebbe mai vinto senza il team di cui lui era faro:

Il talento ti fa vincere una partita. L’intelligenza e il lavoro di squadra ti fanno vincere un campionato. 

La lezione di Obdulio Varela

Quando si vuole raggiungere un risultato globale e di gruppo bisogna creare l’atmosfera che fa rendere l’atleta nel migliore dei modi. Il carisma viene fuori in certi atleti, che possono trascinare gli altri. Allo stesso tempo, bisogna essere consapevoli che per raggiungere l’obiettivo prima che una squadra bisogna avere un gruppo. Ovvero unione, consapevolezza dei propri mezzi, forza di squadra. Questo porta a crescere e raggiungere obiettivi precisi.

Rio de Janeiro, 16 luglio del 1950. 175.000 persone – ma per molti 200.000 e spicci – sono assiepate sui gradoni dello stadio Maracanà in attesa dell’atto finale della Coppa del Mondo, quello che sancirà il trionfo del Brasile sull’Uruguay. O almeno, così credono.

Il percorso dei loro beniamini fino a quel momento è stato pressoché perfetto. Girone di qualificazione vinto agevolmente, Italia e Inghilterra già fuori dai giochi, prime 2 partite del torneo finale vinte con punteggi da torneo parrocchiale: 7-1 alla Svezia e 6 – 1 alla Spagna.

Ultimo ostacolo verso la gloria, la Celeste. Squadra buona, ma non ottima. Capitanata però da un vero leader: Obdulio Varela.

Lui a quel destino che pare già scritto non è rassegnato. I giornali titolano “Brasile campione” alla vigilia del match. La federazione uruguaiana chiede ai suoi almeno una “sconfitta dignitosa”, non più di 4 goal di scarto. La premiazione è già organizzata per celebrare i padroni di casa, il discorso di congratulazioni è scritto in portoghese.

Varela ha un’opinione diversa. Compra tutte le copie che riesce a trovare di quei giornali brasiliani che li danno già per spacciati, e li appende negli spogliatoi. I suoi compagni devono vederli, memorizzarli, per tirar fuori orgoglio e attributi.

Anche il discorso pre-gara del coach Juan Lòpez dà poche speranze. Secondo lui l’unica possibilità di salvezza, col Brasile, è difendersi. Far catenaccio e sperare. Varela aspetta che il mister esca dallo spogliatoio e poi si scatena:

…. Lasciate perdere. Juancito è un brav’uomo, ma se gli diamo retta, oggi, faremo la fine della Svezia e della Spagna. I tifosi? Fingete che non esistano! In campo siamo undici contro undici. Cominciamo lo show!

Nel primo tempo il Brasile non passa. L’Uruguay si difende con ordine, Varela non perde un contrasto. Ma bastano 2 minuti del secondo tempo per far esplodere il Maracanà. Gol Friaça, Brasile in vantaggio.

Tutto perduto? Macché. Varela è un attore navigato, l’erba il suo palcoscenico. Cammina calmo verso la sua porta, raccoglie il pallone, protesta con l’arbitro per un fuorigioco (inesistente), chiede un interprete e intanto aspetta. Aspetta che il pubblico calmi l’entusiasmo, che attorno a lui sia silenzio. Poi grida ai suoi compagni: “…e ora, prendiamoci la Coppa!”.

Il resto è storia, lacrime di gioia e di disperazione. Schiaffino pareggia i conti al 66’, Ghiggia ribalta il Brasile al 79’. Il Maracanà è muto. L’Uruguay è campione. Il Brasile una nazione in lutto. Varela il leader e l’eroe di quel gruppo.

 

Quali credi siano i valori della leadership sportiva che ben si adattano a quella aziendale? Condividi il tuo pensiero su #spiritoleader! 

Un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *